sallusti/il pezzo

Qui sotto c’è il pezzo per il quale, in qualità di direttore responsabile, Alessandro Sallusti è stato condannato oggi con sentenza definitiva a quattordici mesi di reclusione, pena sospesa.

Leggetelo fino in fondo, anche quando vi si attorciglierà lo stomaco, per favore.

Decidete voi se è questo è un articolo giornalistico.
Decidete voi se c’entra la libertà di espressione, o se in questo pezzo non siano stati tutti trattati come se non fossero esseri umani, ma personaggi di una tragedia il cui autore aveva già deciso i ruoli dei buoni e dei cattivi fin dapprincipio, in barba a qualunque dovere di verifica.
Decidete voi se la complessità delle ragioni di una scelta così decisiva può essere brutalizzata con questa violenza verbale.

Decidete voi se questo articolo parla di circostanze vere, visto che l’«aborto coattivo» non esiste.
Decidete voi se romanzare una vicenda come questa è legittimo, sensato.
Decidete se è rispettoso dell’onorabilità delle persone di cui parla.
Decidete voi se le motivazioni dei genitori possono essere ridotte a un’etica delle Maldive, dove peraltro nessuno sa se questi genitori siano mai andati.

Decidete voi se si può scrivere tutto questo, parlare di una madre e di un padre (che peraltro pare non sia stato coinvolto nella decisione, ed ecco perché si è reso necessario l’intervento del giudice tutelare) nei termini in cui ne parla questo Dreyfus.

Decidete voi se del disorientamento di una tredicenne qualcuno si può permettere il lusso di parlare in questi termini, e poi invocare una questione di libertà di stampa, sostenuto dai maggiori esponenti della professione giornalistica. Avanti.

Decidete voi se si può scrivere che un giudice «obbliga» all’aborto, come se fossimo sotto Hitler, e non che un giudice «autorizza».

Decidete voi se di una ragazza che forse – mica siamo sicuri, noi, che questo sia vero – viene ricoverata in ospedale psichiatrico si possa dire che «finisce pazza».

Decidete voi che fine fa in questo pezzo la libertà di una donna – o di una ragazzina, per il cui caso la legge dice cose sensate, e chiare, che questo Dreyfus decide di ignorare per asserire il suo punto – di decidere per sé senza essere definita un’assassina dalle pagine di un giornale.

Dove siete, donne?
Dove siete, direttori di giornali che difendete un uomo che ha consentito che sul suo giornale uscisse questa roba e adesso tentate di spiegarmi che poveri direttori, mica si pretenderà che leggano tutto?
Dove siete, direttore di giornali?
Cara direttora dell’Huffington Post, dove sei?
Dove sei, quando uno scrive «aborto coattivo»?

Come potete pensare che il direttore non sapesse niente di questo specifico pezzo?
Questo è un editoriale, per dio.
È un pezzo che dà la linea.
Come può, un direttore, sostenere che non ne sapeva niente?
Come si può sostenere che un direttore sia legittimato a non sapere niente di un articolo simile, per la miseria?

Cosa sa questo signor Dreyfus di quello che è successo al corpo della ragazzina?
Come può scrivere che «si divincolava»?
Era là, lui?
Faceva il suo lavoro di giornalista dentro la sala operatoria?
Che cosa sa, lui, di quello che è successo?
Dei movimenti di quel corpo?
Che cosa diavolo sa?
Perché parla di una storia così privata senza il minimo rispetto?
Chi gliene dà il diritto?
Forse il tesserino dell’Ordine dei giornalisti?
Come fa a sapere cosa hanno pensato i genitori della ragazzina?

Ecco il pezzo, per intero.
Fa venire i brividi. Fa vergognare del tesserino bordeaux. Altro che difesa del diritto di parola. Altro che reato d’opinione.
Costui fa credere che l’intervento chirurgico in cui si conretizza un aborto avvenga «sotto gli occhi di una ragazzina», come se non ci fosse l’anestesia. Come se al supplizio si fosse obbligate a presenziare, come forse agli integralisti tanto piacerebbe: una bella donna, piccola o grande, che urla e sanguina, e che vede un feto fatto a pezzi uscirle dal corpo.

Questa è l’immaginazione malata e perversa di alcuni.

Ma l’hanno letta, questa roba, la sobria signora Severino, il sopraffino signor Monti, il democratico signor Mauro, il signor Travaglio, il signore che scrive sull’Unità, il signor De Bortoli?
L’ha letto, chi blatera di libertà di stampa?

Libero, 18 febbraio 2007
Prima e seconda pagina

Una adolescente di Torino è stata costretta dai genitori a sottomettersi al potere di un ginecologo che, non sappiamo se con una pillola o con qualche attrezzo, le ha estirpato il figlio e l’ha buttato via.

Lei proprio non voleva. Si divincolava. Non sapeva rispondere alle lucide deduzioni di padre e madre sul suo futuro di donna rovinata.
Lei non sentiva ragioni perché più forte era la ragione dei cuore infallibile di una madre.

Una storia comune. Una bambina, se a tredici anni sono ancora bambine, si era innamorata di un quindicenne. Quando ci si innamora, capita: e così qualcosa è accaduto dentro di lei. Lei che era una bambina capiva di aspettare un bambino. Da che mondo è mondo non si è trovata un’ altra formula: non attendeva un embrione o uno zigote, ma una creatura a cui si preparava a mettere i calzini, a darle il seno.

I genitori hanno pensato: «È immatura, si guasterà tutta la vita con un impiccio tra i piedi».
Hanno deciso che il bene della ñglia fosse: aborto. In elettronica si dice: reset. Cancellare. Ripartíre da zero.
Strappare in fretta quel grumo dal ventre della bimba prima che quell’Intruso frignasse, e magari osasse chiamarli, loro tanto giovani, nonna e nonno. Figuriamoci.
Tutta ’sta fatica a portare avanti e indietro la pupa da casa a scuola e ritorno, in macchina con la coda, poi a danza, quindi in piscina. Ora che lei era indipendente, ecco che si sarebbero ritrovati un rompiballe urlante e la figlia con i pannolini per casa.

Il buon senso che circola oggi ha suggerito ai genitori: i figli devono essere liberi, vietato vietare. Dunque, divertitevi, amoreggiate. Noi non eccepiamo. Siamo moderni. Quell’altro che deve nascere però non era nei patti, quello è vietato, vietatissimo. Accettiamo che tutti facciano tutto, ma non che turbino la nostra noia.

Un magistrato allora ha ascoltato le parti in causa e ha applicato il diritto – il diritto! – decretando: aborto coattivo. Salomone non uccise il bimbo, dinanzi a due che se lo contendevano; scelse la vita, ma dev’ essere roba superata, da antico testamento.

Ora la piccola madre (si resta madri anche se il figlio è morto) è ricoverata pazza in un ospedale.
Aveva gridato invano: «Se uccidete mio figlio, mi uccido anch’io».

Hanno pensato che in fondo era sì sincera, ma poi avrebbero prevalso in lei i valori forti delle Maldive e della discoteca del sabato sera, cui l’avevano educata per emanciparla dai tabù retrogradi. Che vanno lavati con un bello shampoo di laicità. Se le fosse rimasto attaccato qualche residuo nocivo di sacralità, niente di male, ci vuole pazienza. E una vacanza caraibica l’avrebbe riconciliata dopo i disturbi sentimentali tipici dell’età evolutiva.

Non è stato così. La ragazzina voleva obbedire a qualcosa scritto nell’anima o – se non ci credete – in quel luogo del petto o del cervello da cui sentiamo venir su il nome del figlio. Ma no: non anima, né petto, né cervello.
Le dava dei calci proprio nella sua pancia che le dava il vomîto.
Una nausea odiosa, ma così rasserenante: più antica dell’effetto serra, qualcosa che sta alla fonte del nostro essere. Si sentiva mamma. Era una mamma.
Niente.
Kaput.
Per ordine di padre, madre, medico e giudice per una volta alleati e concordi. Stato e famiglia uniti nella lotta.

Ci sono ferite che esigerebbero una cura che non c’è. Qui ora esagero. Ma prima domani di pentirmi, lo scrivo: se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il giudice.

Quattro adulti contro due bambini. Uno assassinato, l’altro (l’altra, in realtà) costretto alla follia.
Si dice: nessuno tocchi Caino, ma Caino al confronto avevale sue ragioni di gelosia. Qui ci si erge a far fuori un piccolino e a straziare una ragazzina in nome della legge e del bene.

Dopo aver messo in mostra meritoriamente questo scempio, il quotidiano torinese la Stampa che fa? Mette pacificamente in lizza due pareri. Sei per il Milan o l’Inter? Preferisci la carne o il pesce?

Non si riesce a credere che ci possano essere due partiti. Sì, perché in fondo la vera notizia è questa, e cioè che ci sia un’opinione ritenuta rispettabile e che accetti la violenza più empia che esista: il costringere una madre a veder uccidere il figlioletto davanti ai suoi occhi.
Non c’è neanche bisogno del cristianesimo. Basta l’Eneide di Vlrgjlio, la saggezza classica. L’orrore è quando i greci assassinano davanti agli occhi di Priamo il figlio.

Invece qui già ci sono`due partiti. Quello pro e quello contro. È incredibile. Come se fosse possibile fare un bel dibattito sul genocidio: uno si esprime a favore, il secondo è perplesso. Ma che bella civiltà, piena di dubbi.
Come scriveva Giovanni Testori, più battiti e meno dibattiti. Specie quando il battito di un innocente è stato soffocato con l’alibi della libertà e della felicità di una che non sa che farsene, se il prezzo è l’aborto.

Questo racconto tenebroso è specchio dei poteri che ci dominano. Lasciamo perdere i genitori, che riescono ormai a pesare solo come ingranaggi inerti.
Ma che la medicina e la magistratura siano complici ci lascia sgomenti. Però a pensarci non è una cosa nuova.
Nicola Adelfi propose, sempre sulla Stampa, l’aborto coattivo, in grado di eliminare i fastidiosi problemi dicoscienza, perle donne di Seveso rimaste incinta al tempo della diossina (2 agosto 1976).

Abbiamo udito qualcosa di simile aproposito di lager nazisti e di gulag comunisti. Ma che questo sia avvenuto in Italia e che abbia menti pronte a giustificarlo è orribile.